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arte
L’opera sulla quale vogliamo soffermarci stavolta non è un
dipinto, una scultura o un’istallazione ma un’opera letteraria che, però, pone
la centro del suo interesse proprio il concetto stesso dell’arte. Il museo immaginario[1],
pubblicata nel 1947 e scritta da Andrè
Malraux (1901-1976) scrittore e politico francese[2]
propone, infatti, una moderna concezione estetica.
Si parte dal presupposto che il museo, riunendo una quantità
di oggetti artistici diversi per epoca, luogo di provenienza e caratteristiche
formali, libera l’arte dal proprio contesto storico poiché ciò che Malraux
intende sottolineare non è tanto il valore specifico di ogni singola opera
quanto la possibilità di ritrovare nell’intera produzione artistica di ogni
tempo e luogo la comune e trascendente attitudine dell’uomo a dissertare,
esplorare, e mettere in discussione il mondo.
L’arte, quindi, come “assoluto trascendente” che raccoglie
in sé tutto ciò che è attestazione della rivolta dell’uomo contro il destino.
L’esplicazione massima del Museo immaginario si raggiunge paradossalmente
nell’assenza dell’opera d’arte, proprio perché svincolata da ogni rapporto
fisico e concreto con l’opera d’arte stessa, divenendo il luogo mentale,
personale di ciascuno di noi, il museo che ognuno “porta dietro le
palpebre”, ma allo stesso tempo luogo della collettività attraverso il
mezzo fotografico. In tutto questo, infatti, la fotografia gioca un ruolo
fondamentale poiché veicola l’intera arte mondiale rivoluzionando le categorie
spazio-temporali, trasformando il contatto diretto con l’opera originale
in un momento non indispensabile.
La possibilità di isolare soltanto frammenti o particolari di un'opera
d'arte attraverso sue riproduzioni, sembra potenziarne la fruizione, agendo con
più forza sull'immaginazione. Si aprono nuove prospettive allo sguardo, si
rivelano confronti inaspettati, si compie cioé il primo passo per la diffusione
dell'immaginario.
[1] Questo volume inaugura la
trilogia La pisicologia dell'arte diventata poi Le voci del silenzio.
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