Non è un caso che il termine
“quadro” sembri, almeno ad un primo sguardo, il termine più adatto per definire
le opere fotografiche dell’artista francese Patrick Faigenbaum (1),
attualmente esposte nelle sale
dell’Accademia di Francia (Villa Medici).
Il rapporto tra pittura e
fotografia, fulcro di questa retrospettiva è, infatti, il nodo centrale di una ricerca iniziata a Parigi alla fine degli
anni Sessanta studiando disegno e che ha
visto Faigenbaum abbandonare progressivamente
“l’arte del cavalletto” per immergersi nell’esplorazione del linguaggio
fotografico. Una separazione mai del tutto definitiva che, anzi, porta il
bagaglio culturale del tableau (2) proprio dentro la fotografia. Sono
gli stessi curatori dell’esposizione, il fotografo canadese Jeff Wall e, in
particolare, lo storico dell’arte Jean- François Chevrier, noto per il suo saggio, The Adventures of the Picture Form in the History of Photography (1989)
a chiarire, attraverso l’opera di Faigenbaum, l’importanza teorica del
tableau-fotografia nel dibatto degli anni Ottanta, quando la scelta del formato
di grandi dimensioni non solo si connotava come volontà di allontanare il
medium fotografico dal modello prettamente documentario, ma si prefiggeva di
ridisegnare i confini della sua relazione con lo spazio espositivo e la sua
modalità di fruizione (3).
Lungi dall’essere una semplice
rivoluzione formale, il tableau-fotografia finisce con l’appropriarsi dei
contenuti, del linguaggio e dei metodi di costruzione dell’immagine tipici
della pittura.
Come si evince dalla lunga galleria di opere
che si susseguono nella mostra, il veicolo privilegiato di questo work in progress per Faigenbaum, è sicuramente il ritratto, genere che
negli anni Ottanta lo fa conoscere a livello internazionale soprattutto per una
serie di lavori dedicati alle famiglie aristocratiche italiane. I vari membri
della Famiglia del Drago, della Famiglia Massimo oppure i Riaro Sforza
protagonisti di scatti in bianco e nero rigorosi nella posa e nella composizione
vengono avvolti da un’atmosfera di assoluta immobilità che ci proietta in un tempo e in un
luogo che mostrano uno scollamento dalla vita reale e sembrano rifarsi alla
ritrattistica dei pittori fiamminghi del Rinascimento, in cui la realtà acquista
una valenza simbolica, ogni oggetto rimanda a un altro significato, originando
una straordinaria ricchezza di piani di lettura. La stessa immobilità che, nonostante la nuova attenzione ai
paesaggi urbani e ai loro abitanti e, l’evoluzione di una concezi one del
ritratto senz’altro teso a catturare la molteplicità, la dispersione delle
città contemporanee, ritroviamo nelle fotografie degli anni Novanta di Brema e
Praga.
Così,
viaggiando sempre su diversi registri linguistici, il primo piano del volto della
madre, Suzanne, indagato in ogni suo minimo dettaglio, con “uno sguardo quasi
plastico“, può essere esposto tra la riproduzione della Testa di Tito dei
Musei vaticani e quella della
Testa di Geta dei Musei Capitolini; così come una natura morta dal ‘sapore’
secentesco potrebbe appunto confondersi, ad una prima occhiata, con antichi
dipinti che hanno per tema lo stesso soggetto, attraverso una sapiente
operazione in cui molto spesso pittura e fotografia si mescolano fino al punto
di risolversi l’una nell’altra.
(1) Patrick Faigenbaum è nato a Parigi nel 1954 dove vive e lavora
anche come Professore all’Ecole Nationale Supérieure des Beaux-Arts. Dal 1985
al 1987 è stato borsista all’Accademia di Francia
(2) Termine francese per
quadro (dipinto) usato soprattutto per riferirsi alla pittura da cavalletto.
(3) In questo senso Chevrier
parla di opere “prodotte per il muro”[come i dipinti] come ad indicare un
superamento nel modo tradizionale del
pubblico di fruire le immagini fotografiche solitamente “ricevute e
‘consumate’”.
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