FERDINANDO,
il testo capolavoro di Annibale Ruccello,
è un dramma di parole. Parole che stordiscono, mistificano, conquistano,
ingannano e sì, uccidono “perché ognuno
uccide ciò che ama, il vile con parole carezzevoli, il prode con la spada”. È questa l’accusa che donna Clotilde, nobile
neanche troppo decaduta, muove alla cugina/serva Gesualda “tu mi vuo’ accidere cu ‘e pparole… e’ pparole toie so’ peggio r’ ‘e
curtellate pecchè spurtuseno e nun lasciano signo”. E in un crescendo vorticoso di
eventi quasi immobili e di frasi mobilissime e disturbanti si arriva proprio
alla morte, quella vera di don Catellino, prete tentatore e perduto, e quella
figurata di donna Clotilde e Gesualda, morte nei sogni, nelle speranze,
nell’ultimo residuo di una felicità che il diabolico Ferdinando, l’unico
personaggio apparentemente vincente della pièce, è riuscito ad evocare e poi a
dissipare.
Difficile
riprendere e riportare a “vita nuova” un pezzo di teatro così complesso e
semplice allo stesso tempo, nel quale si accavallano interpretazioni e letture,
e così ben identificato con Isa Danieli, attrice per la quale il compianto
drammaturgo lo aveva scritto.
Gea Martire però avvince e convince.
Prima,
avviluppata nel suo camicione lenzuolo, quasi una camicia di forza liberamente indossata
che l’avvinghia strettamente nel letto dove donna Clotilde ha deciso di
esiliarsi; poi, libera e sfrontata, in abiti spagnoleggianti, con i capelli
colorati di fuoco, dalle luci scenografiche che sbandierano impudiche la sua
ritrovata, riconquistata, femminilità.
L’interpretazione
della Martire arriva alle viscere del testo, sputando prima ogni parola e poi
addolcendola, nel suo napoletano liquido ed intenso.
Chiara Baffi è una Gesualda vivida,
arrabbiata e stanca, vendicatrice della perduta o mai avuta purezza.
Le
due attrici nel primo atto, muovendosi attorno al letto/palcoscenico, con le
strambe sedie a rotelle, che servono per spostarsi o declamare, usando oggetti
solo immaginati, costruiscono una convincente partita a scacchi, alla quale si
aggiunge ospite cercato e subìto, il don Catellino di Fulvio Cauteruccio, che racconta il pretaccio rapace in un’inedita
contaminazione della lingua napoletana con il dialetto, ma più che altro, con l’accento
calabrese.
Ed
infine il Ferdinando di Francesco
Roccasecca, l’angelo caduto, il diavolo tentatore, la nota dissonante e
distorta, che nasconde tutto dietro una bellezza che deturpa ed ammala.
I
quattro protagonisti vivono una scena quasi dickensiana, dove, nel primo atto,
tutto è barocco e superfluo, così superfluo da non esserci, quindi niente
boccette a cui bere, sedie su cui sedere, lettere da leggere. Solo, appunto, quei supporti a rotelle, che spostano i personaggi, che
diventano simulacri di se stessi e di un’epoca, un’epoca che non è solo e per
forza il 1870, della quasi unità d’Italia, ma un’epoca che sempre si rinnova,
quella delle passioni umane, dei vizi, delle gelosie ed in fondo del bisogno di
essere visti e riconosciuti, perché, come afferma donna Clotilde, entrando in
scena “l’epoca è cagnata” ma noi, noi spettatori, noi umani, non siamo
forse rimasti gli stessi?
- Elena Costa -
Si ringrazia Davide Scognamiglio per la foto di scena che ritrae Gea Martire
FERDINANDO
di Annibale Ruccello
Regia Nadia Baldi
Con Gea Martire Donna Clotilde - Chiara Baffi Gesualda - Fulvio Cauteruccio Don Catellino - Francesco Roccasecca Ferdinando
Consulenza musicale: Marco Betta - Scenografia: Luigi Ferrigno - Costumi: Carlo Poggioli - Progetto luci: Nadia Baldi
Foto in videoproiezione: Davide Scognamiglio - Produzione Teatro Segreto