dal 25 al 27 novembre ore 21
SEE PRIMARK AND DIE
di Claire Dowie
regia Dafne Rubini
con Martina Gatto
direzione
creativa Ivan Specchio
aiuto regia Federica
Balducci
assistente alla
regia Giorgia Macrino
organizzazione
Pamela Parafioriti
disegno luci
Alessio Pascale
ufficio stampa
Maresa Palmacci
foto Paolo Falasca
post produzione
Elena Prosdocimo
traduzione e adattamento Elena Maria Aglieri e Carlo Emilio Lerici
coproduzione
Esosementi / Teatro Belli
in accordo con Arcadia Ltd per gentile concessione di
Claire Dowie
“Tutto il capitalismo ruota intorno alla merda cercando di
coprirne l’odore.”
Negozi, vetrine, alimentari, supermercati, prodotti, prodotti
superscontati, alimenti bio a chilometro zero.
Le nostre città sono ormai invase da qualsiasi tipo di tentazione
acquistabile.
Cosa succederebbe se un giorno, svegliandoti, non riuscissi più a
comprare nulla?
È quello che accade alla protagonista del testo di Claire Dowie,
prima di mettere piede nel suo negozio preferito. L’incapacità - quasi la fobia
- di acquistare si impossessa di lei, trascinandola in una serie di situazioni
sorprendenti e disorientanti.
Irriverente e poetico, attuale e ironico, See Primark and Die!
rispecchia la tradizione della stand-up comedy britannica, mettendo in primo
piano la parola, il più delle volte sfacciata e imprevedibile.
D’altronde, cos’altro avrebbe potuto fare in una società capitalistica
e consumistica?
----
dal 30 novembre al 4 dicembre ore 21
CUCKOO
di Suhayla El-Bushra
adattamento e regia
Carlo Emilio Lerici
con Francesca Bianco, Raffaella Alterio e Beatrice Coppolino
produzione Teatro Belli
Erica è annoiata. La sua vita era stimolante, esotica, con viaggi
di lavoro in Africa e un lavoro eccitante. Ora, dopo il trasferimento a Londra,
la sua vita è un susseguirsi di giorni noiosi trascorsi tra le mura domestiche.
Poi, una mattina, incontra in cucina la nuova amica di sua figlia Jenny,
Nadine. Improvvisamente, la vita diventa di nuovo interessante. Nadine, al
contrario di Jenny, timida e riservata, è un’adolescente sarcastica e pungente,
talvolta addirittura violenta. Tra Erica e Nadine nasce una bizzarra amicizia:
la ragazza è affascinata da questa donna hippy e svagata, così diversa da sua
madre, al contrario rigida e severa. Dopo l’ennesimo scontro con la propria
famiglia, perché espulsa da scuola per aver rotto il braccio ad un ragazzo,
Nadine si trasferisce a casa dell’amica, e lei ed Erica diventano confidenti. Le due parlano di tutto, anche di sesso, e
Nadine, per la prima volta, si sente ascoltata, capita. Erica, che odia essere
chiamata “mamma”, trova questa ragazza spavalda e acuta molto più interessante
della figlia, e tra le due si instaura un vero e proprio legame. Come il
“cuculo” del titolo, uccello migratorio che depone le uova nei nidi di altri
uccelli, Nadine si inserisce nella dinamica familiare di Erica e Jenny e la
sconvolge. In Jenny, che è sempre stata una brava ragazza, iniziano a crescere
sentimenti di rabbia ed esclusione, in una sorta di battaglia per gli affetti
che avrà un finale imprevedibile.
“Cuckoo” - secondo atto di una trilogia
dedicata da El-Bushra ai rapporti tra adolescenti e genitori - è una storia densa di
questioni di classe, brave ragazze e cattive ragazze, rabbia e risentimento
femminile, responsabilità e genitorialità.
Le ragazze adolescenti
lottano per capire se stesse, ma la loro vita interiore è lucida e piena di
possibilità. Al contrario, gli adulti o sono assenti fisicamente o nello
spirito. El-Bushra gioca con i preconcetti: la mamma di Jenny si veste da hippy
dimenticata dal tempo e le ragazze parlano esplicitamente di sesso (anche
quando non hanno esperienza). In un certo senso, è un mondo che non c'è: le
ragazze vivono in attesa di cose che ancora devono accadere e gli adulti
ricordando glorie che forse non sono mai accadute.
----
6/7 dicembre ore 21
ANGEL OF KOBANE
di Henry
Naylor
regia Simone
Toni
con Anna Della Rosa
creazione visiva Cristian Zurita
traduzione Carlo Sciaccaluga
produzione TPE - Teatro Piemonte Europa
produzione originale 2018 Teatro
Nazionale di Genova
“Il mio sangue la mia ultima linea di difesa”
è la frase che Rehana pronuncia quando, per non essere stuprata da un membro
dell’Isis che l’ha comprata in un mercato di Raqqa, si sporca le mutande con il
sangue di una ferita che si è procurata cercando di scappare. Non è permesso,
infatti, possedere una donna che ha le mestruazioni: l’uomo sarebbe dannato e
per lui non si aprirebbero le porte di quel paradiso in cui dovrebbero attenderlo
72 vergini come premio per la sua guerra santa agli infedeli. Rehana per questa
volta è salva. In quella frase è raccolto il senso più profondo del testo e del
nostro spettacolo: l’orgoglio e il coraggio del popolo curdo che da solo ha
respinto e tuttora sta resistendo all’esercito di Daesh, l’Isis. Un popolo di
cui si parla poco, salvo quando, a sproposito, viene additato dal governo turco
come una pericolosa minaccia di stampo terrorista. La storia dell’uomo ci presenta
innumerevoli tragici esempi in cui il sangue dei civili è stato l’ultima linea di
difesa, e quando un popolo è costretto a prendere le armi per difendere la
propria terra e la propria libertà è una sconfitta per tutto il genere umano.
Ecco perché il nostro spettacolo oggi è ancora tristemente attuale. L’arte e la
cultura dovrebbero contribuire a formare coscienze umane fatte di sentimento,
comprensione e compassione. A tal proposito vorrei riportare una frase della
lettera che il grande regista russo Lev Dodin ha scritto a W.Putin dopo pochi giorni
dall’invasione dell’Ucraina: “Nella mia
infanzia, abbiamo giocato a difendere Mosca, Stalingrado, Leningrado, Kiev. Non
posso nemmeno immaginare che oggi Kiev si difenda o si arrenda ai soldati o agli
ufficiali russi. Il mio cervello si attacca al cranio e si rifiuta di vedere,
di sentire, di immaginare tali immagini”. Ma noi teatranti, con il cranio
attaccato al cervello abbiamo il dovere di far vedere gli orrori della guerra,
sperando che l’antica funzione catartica del Teatro abbia ancora qualche potere
nel toccare l’animo umano. “L’angelo di Kobane” è la piccola grande storia di
Rehana. In scena c’è solo un’attrice. Viene da un altrove e si presenta nel qui
e ora per tranquillizzarci, non vuole farci sentire in colpa, vuole solo raccontare
una storia di cui nessuno parla. Vuole raccontare come è stata costretta a scappare
di casa un giorno con sua madre, perché stava arrivando l’Isis, e come poi sia fuggita
tornando a cercare il padre che a sua insaputa era rimasto a combattere. Vuole renderci
partecipi di come da aspirante avvocato sia divenuta uno spietato cecchino delle
YPJ e di come infine sia stata catturata e decapitata, infrangendo la regola d’oro
“tenere l’ultima pallottola per se stessi”. Soprattutto ci racconta il suo
amore per la vita e di come le violenze subite non l’abbiano scalfito. Ci
racconta degli alberi della fattoria di suo padre che un giorno, già
combattente, ritrova bruciati dai terroristi ma che ricresceranno anche grazie
al sangue, suo e delle sue compagne, di cui il suolo sembra essere assetato. Ciò
che mi ha guidato nella regia è stato prevalentemente il rispetto verso questo
personaggio e la sua storia, che si è tradotto in un altrettanto grande
rispetto e sostegno verso Anna Della Rosa che lo interpreta. Rehana arriva con un borsa di pelle “vissuta”,
carica di piccoli oggetti che nel corso dello spettacolo rimarranno a terra
segnando il suo passaggio e un percorso emotivo che lo spettatore potrà
condividere come se lo avesse anch’egli attraversato. Oggetti che potremmo ritrovare
nello zaino di una ragazza che non c’è più. Anna agisce in un non-luogo di
nylon bianco in cui sono presenti solo un ceppo di legno e una piccola tanica
di plastica con del sangue/petrolio che insieme agli oggetti disegneranno
quella che se fossimo in un museo di arte contemporanea potrebbe essere
un’installazione dal nome “L’Angelo di Kobane” ma che sarà semplicemente il
nostro spettacolo. Siamo profondamente grati al destino che ci ha fatto incontrare
questo angelo ed è con questo sentimento che cercheremo di raccontare la sua storia.
Simone Toni
----
dal 9 all’11 dicembre ore 21
YEN
di Anna Jordan
regia Jacopo Bezzi
traduzione
Massimo Roberto Beato
produzione
La Compagnia dei Masnadieri
Yen, opera
teatrale di Anna Jordan vincitrice del Bruntwood Prize 2013, esplora
un'infanzia vissuta senza confini e le conseguenze dell'essere costretti a
crescere da soli. Hench e Bobbie sono due fratelli di sedici e tredici anni.
Vivono a casa da soli, a Feltham un sobborgo di Londra, con il loro cane
Taliban; giocano alla PlayStation, guardano film porno in streaming, e trascorrono
le giornate a osservare il mondo che passa. A volte la mamma, Maggie, fa loro
visita, di solito con le tasche vuote e promesse illusorie. Poi però, un
giorno, si presenta a casa loro Jenny, e tutto sembra cambiare…
----
dal 12 al 14 dicembre ore 21
FUCKED
di Penny Skinner
regia Martina Glenda
con Chiarastella Sorrentino
scene
Sara Palmieri
aiuto
regia Arianna Cremona
traduzione
Francesca Romana degl’Innocenti e Marco M. Casazza
produzione Khora Teatro
Sinossi
F,
in una spirale di flashback, ripercorre a ritroso il suo viaggio
dall'adolescenza all'età adulta. Dalla stripper di oggi, in uno squallido
locale la notte di Capodanno, torniamo fino alla sua verginità. Quelli di
“puttana”, “fidanzata”, “vittima”, “troia”, “oggetto”, “vergine” sono i panni
che veste lungo le tappe relazionali che fino ad oggi l’hanno “fottuta”.
Note
di regia
In
una stanza incasinata, un po’ come la proprietaria, ci apre il suo racconto F,
l’anonima protagonista del testo di Penny Skinner. F, oggi, è una
spogliarellista senza un soldo in tasca con problemi di dipendenza. Ma F, oltre
a questo è stata e continua ad essere moltissime altre cose. Mentre F legge un
racconto che ha scritto a dodici anni, in cui una giovane contadina viene
salvata dall’amore del valoroso Duca Randalf Fior di Leone, ci si rende subito
conto di qualcosa: F è “fottuta” da molto prima di quanto potesse immaginare, è
“fottuta” dal principio. Fucked parla di quanto sia forte l’internalizzazione
del pensiero che prima o poi qualcuno verrà a salvarci così da poter vivere finalmente
felici e contenti. Ma se non fosse realmente questo il segreto per il lieto fine?
E se tutte le favole raccontateci da bambini non avessero fatto che portarci
ancor di più fuori strada? Come in un racconto, attraverso una serie di
capitoli, F ci porta nel suo processo di analisi e presa di coscienza di sé
stessa. Ogni capitolo ha un titolo, o meglio, una definizione. Definizioni che
le sono state appiccicate addosso, che darebbe il senso comune o che si è auto
attribuita e che vengono presentate nel testo così come apparirebbero sulle
pagine di un vocabolario. “I am human and
I need to be loved, just like everybody else does”, così canta Morrissey sulle
note di How soon is now? e così si sente la caotica protagonista. F
vive nell’inguaribile sofferenza di chi crede che qualcuno altro possa regalarle
più felicità di quanto lei stessa possa fare. Per questo motivo F incappa in
atteggiamenti autodistruttivi che la portano all’autoincriminarsi proprio quando
non dovrebbe. Si apre così, tra gli altri temi, una delicata riflessione sul
mastodontico ruolo del senso di colpa delle vittime in situazioni di abuso. Fucked
ribadisce ancora una volta, perché ancora ce n’è bisogno, quanto sia
difficile essere una ragazza e stare al mondo. F cade, ricade e per ogni volta
che viene “fottuta” eccola che rimbalza in piedi inarrestabile, regalandoci la speranza
di poter cambiare il vecchio e noioso finale della favola in cui il cavaliere
salva la donzella in pericolo.
Martina
Glenda
----
dal 15 al 18 dicembre ore 21
THE DUCKS
di Michael Mclean
regia Silvio Peroni
con Marco Vergani e Giuseppe Benvegna
traduzione
Natalia di Giammarco
produzione Khora Teatro
"R"
e "K" sono due lavoratori occasionali con il compito di prosciugare
uno stagno di anatre in un parco pubblico. Durante questa obbligata convivenza
nasce qualcosa che potrebbe diventare un’amicizia. Ma i rapporti interpersonali
non sono sempre semplici. In ogni
relazione c’è una forma di dipendenza, anche nell’amicizia, e non è certo
semplice accettarla, anzi spesso la si rifiuta o si instaura con l’altro una
lotta di potere. Chi dipende da chi, chi può fare a meno dell'altro? The
Ducks è un brillante studio sulla solitudine e sulla mascolinità contrastata.
"K"
sembra un po' strano, ma "R" fa uno sforzo e lo convince ad andare a
bere una birra. "K" non beve. Col passare del tempo "K"
uscirà gradualmente dal suo guscio, finché non chiederà a "R" di
andare ad ascoltare un suo DJ set. "R" va ma non apprezza la serata anzi
la definisce "musica per matti" e lo dice in faccia a "K"
senza troppi problemi. La relazione comincia a cambiare fino a quando durante
il loro ultimo giorno di lavoro "K" invita "R" a casa sua
(vive con sua madre). Questo è un po' troppo per "R": la birra al pub
è una cosa, va bene, ma invitare un uomo adulto a casa propria è un po’ troppo.
Passa del tempo e i due si incontrano nuovamente o meglio è "R" che
si presenta alla porta di "K". "K" ora ha un lavoro fisso
come tester di videogiochi e la sua vita sembra che stia andando piuttosto bene,
mentre il padre di "R" è appena morto e la sua vita sta andando a
pezzi. Rinfaccia a "K" la loro vecchia “amicizia” e inizia a sfruttarlo
per dei favori personali. Quella che era iniziata come una relazione piuttosto
blanda e innocua tra due uomini con poco in comune, a parte la solitudine,
diventa un oscuro confronto personale per il potere e il sopravvento.
Michael
McLean alterna sapientemente l'oscura lotta per il controllo della relazione e
le assurdità generali della vita. "R" e "K" sono consapevoli
delle assurdità che affiorano nelle loro vite, in effetti è proprio questa battaglia
per raggiungere la normalità e liberare le loro vite dalle complicazioni che
rende il testo divertente e toccante.